Bergamo 11 ottobre 2017

Fabrizio Spera Concerts Reviews

MusicaJazz
Roots Magic al Druso - foto Luciano Rossetti-PHOCUSFoto Luciano Rossetti-PHOCUS

 

Druso, Ranica (Bergamo), 11 ottobre 2017

Non solo per chi segue l’attualità delle avanguardie ma anche per chi ama un repertorio più legato alla storia del country blues, l’occasione di poter ascoltare i Roots Magic in concerto era ghiotta e il pubblico accorso è stato ben motivato a raggiungere il club, in una zona industriale e non facile da trovare senza adeguate segnalazioni.

Ma la serata, che si rivelerà ben riuscita, era una delle rare e imperdibili occasioni di poterli ascoltare dal vivo e nella condizione ottimale per esser travolti dall’energia scaturita dalla musica del quartetto romano, di passaggio a Bergamo in un tour di quattro date nel nord Italia.

Roots Magic

Roots Magic al Druso durante le prove – foto Luciano Rossetti-PHOCUS

L’obiettivo era presentare il nuovo album «Last Kind Words» (Clean Feed), che prosegue nel magico sincretismo tra la tradizione del blues e la contemporaneità dell’improvvisazione iniziato con il precedente «Hoodoo Blues & Roots Magic» e qui riproposto in una fusione magmatica che ribolle nella front-line: Alberto Popolla al clarinetto e clarinetto basso ed Errico De Fabritiis al sax contralto e baritono.

La sezione ritmica, con Gianfranco Tedeschi al contrabbasso e Fabrizio Spera alla batteria, scalda ancor più l’atmosfera, potenziata dalla poliritmia e dai colori timbrici intensamente ricchi di ombre e chiaroscuri.

Roots Magic

Fin dal primo brano in scaletta, Last Kind Words, uno dei soli sei pezzi composti dalla cantante e chitarrista di country bluesGeeshie Wiley  e inciso nel 1931, è chiaro l’imprinting stilistico di una inconsueta fusione tra tradizione e free, molto coinvolgente per l’immediatezza comunicativa che erompe da arrangiamenti arditi e ben costruiti.

Il concerto prosegue con brani tratti dai due album: Down The Dirt Road Blues di Charlie Patton (1929), Dark Was The Night di Blind Willie Johnson (1927) e November Cotton Flower di Marion Brown (1979), che ci restituiscono intatta la poetica del blues e la tensione emotiva delle atmosfere evocate anche con la ricerca di una precisa scelta estetica e di sapienti competenze strumentali.

L’intreccio con la storia avanza in tempi più recenti con The Hard Blues di Julius Hemphill, Unity di Phil Cohran, Old di Roscoe Mitchell portandoci negli anni della rivalsa artistica afro-americana degli anni Sessanta con la AACM di Chicago e il Black Artists Group (BAG) di St. Louis, a sua volta radicata nel blues, potenziata da contenuti politici e con forme rhythm and blues.

Lo studio approfondito del fraseggio, del suono e delle dinamiche che da anni il quartetto persegue, saldato con la consapevolezza storica e il controllo delle intensità con la perfetta tecnica, ci appassiona alla musica di uno dei gruppi di spicco della scena dell’avanguardia italiana.

Monica Carretta

Roots Magic

The Roots Magic Show

Fabrizio Spera Interviews

MUSICAJAZZ 09/01/2017

foto Eleonora Cerri Pecorella

https://www.musicajazz.it/the-roots-magic-show/

Qual è l’origine del nome del quartetto?

Fabrizio Spera: A dirla tutta, c’è una certa dose di casualità. In una fase molto embrionale della vita del gruppo mi sono imbattuto sul web in uno strano libro intitolato Hoodoo Herb And Root Magic, una sorta di ricettario, o meglio un manuale pratico basato sull’esperienza magico-misterica propria della tradizione culturale africana-americana che va sotto il nome di hoodoo. Vi si trovano informazioni botaniche su erbe, radici e indicazioni vere e proprie su come preparare pozioni e creare talismani personalizzati (le tipiche mojo bags), per arrivare a filtri magici e cose del genere. Questa strana suggestione, che ovviamente corrispondeva già a dei nostri interessi relativi al folklore magico del Sud rurale e alla sua riscoperta in chiave «urbana» – argomenti che hanno già fatto parte della ricerca e del mondo espressivo di musicisti che ci sono cari, come, giusto per fare un nome, Julius Hemphill – spiega sia il nome del gruppo che quello del disco, «Hoodoo Blues And Roots Magic».

E in pratica il gruppo com’è nato?

Errico De Fabritiis: Anche in questo c’è stata una certa componente casuale. Esisteva un gruppo diverso, un quartetto che comprendeva Alberto, Gianfranco, Fabrizio e il pianista Alberto Fiori; suonavano un repertorio originale, con dei brani composti da Gianfranco, di impianto decisamente cameristico… Si era verso la fine del 2011. A me era capitato diverse volte di suonare in duo con Fabrizio e poi in duo con Alberto: questo duo di fiati, che è nato altrettanto per caso, improvvisando all’interno del negozio di dischi romano Blutopia, poi si è stabilizzato come Improgressive. Fu sulla base di questi rapporti che avvenne il mio inserimento. Quando poi, di lì a poco, il pianista lasciò il quartetto, il suono del gruppo subì la giusta trasformazione per l’imminente cambio di rotta. La svolta nella vita del gruppo, che poi lo ha portato verso quello che adesso siamo, è venuta comunque in maniera abbastanza fortuita. Un giorno Fabrizio ha proposto di suonare The Hard Blues, di Hemphill e la cosa ha subito colpito tutti, perché andava, aveva il giusto spirito e un groove finalmente coinvolgente.

Alberto Popolla: Tuttavia per un certo periodo di tempo siamo andati avanti con un doppio repertorio, proprio perché all’inizio non c’era stata una programmazione definita verso questa direzione artistica. Tutto questo è durato almeno sino a tutto il 2013. Anche se debbo dire che la confluenza tra il blues e un mondo espressivo più legato alla musica improvvisata è venuta naturale.

FS: In particolare abbiamo sentito subito il bisogno di stabilire una relazione tra le forme più arcaiche e profonde del blues e quelle più aperte e creative del free jazz e senza tralasciare lo spirito solo apparentemente più «leggero» del funk e del rhythm and blues.

Il fatto di proporre in larga parte dei brani altrui non vi pesa? Seppur scherzosamente, qualcuno vi ha definito come una cover band…

Gianfranco Tedeschi: In questo senso il disco potrebbe sembrare un passo indietro. Si pensa sempre che vi sia uno sviluppo di tipo lineare e progressivo, mentre nei fatti il sistema è circolare, spiraliforme. In realtà noi abbiamo visto il ritorno a forme chiuse come un passo in avanti. Non vorrei buttarmi in dei paragoni insostenibili, ma qualcosa di analogo è avvenuto in settori artistici diversi. Ad esempio nella arti figurative, con il cosiddetto «ritorno ad un altro ordine»; basti pensare all’ultimo Picasso, che per far sorgere figure di altri tempi si riappropria di un sistema di segni che sintetizzano tutti i suoi precedenti stili. Dopo questa esperienza per me è difficile tornare a forme improvvisate totali, perché in una certa misura non mi convincono più.

FS: Su questo punto, ci sono visioni diverse. Personalmente tendo a non fare distinzione tra musica composta e improvvisata: ognuna di queste pratiche, incluse quelle che tendono alla loro integrazione, pongono problematiche diverse ma altrettanto stimolanti e percorribili con lo stesso spirito e determinazione.

EDF: L’esistenza d’una struttura produce sempre degli effetti tranquillizzanti, ma ciò non significa che semplifichi le cose. Per me, ad esempio, il lavoro su questo repertorio ha significato il confronto con la forma del blues non soltanto come questione stilistica ma soprattutto in relazione al contenuto. Il confronto e lo scambio con gli altri, e con Fabrizio in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale, ed è così che è nato il mio pezzo Blues For Amiri B.

FS: Per quanto mi riguarda, se volessi riconoscere un tramite che mi ha ricondotto verso la «questione» del blues, dovrei necessariamente indicare la mia esperienza con Mike Cooper nel progetto Truth In The Abstract Blues. Sebbene il suo approccio alla materia presenti delle caratteristiche fortemente personali, sostanzialmente diverse da quello di Roots Magic, non posso negare di esserne stato influenzato.

AP: La sfida è quella di usare quei materiali provenienti dal repertorio del country blues – che indubbiamente costituiscono una vera e propria miniera d’oro – e rimodellarli secondo l’esperienza accumulata attraverso la pratica del jazz e dell’improvvisazione.

FS: Non dimentichiamo che si sta parlando di musica pensata in origine per voce e chitarra, e va da sé che una rielaborazione per quartetto implichi necessariamente un tipo di azione radicale in termini di scrittura e arrangiamento.

GT: Le strutture della prima fase del blues, quella più arcaica, sono di fatto modali. Ci sono delle caratteristiche salienti in quelle forme con le quali è necessario fare i conti, ad esempio il fatto che le parole fossero più importanti della musica e che essa in ampia misura risulti servente a una funzione di narrazione orale. Questo determina delle ovvie restrizioni per chi si ritrova a suonare quel repertorio, tentando di attualizzarlo. Posso dire che è bello stare in una gabbia, ma è importante avere la chiave per uscirne: se puoi uscirne puoi anche tornarvi quando vuoi.

Quello che immediatamente colpisce nella musica di Roots Magic è la forza comunicativa, il fatto che essa vada naturalmente verso il pubblico. Dipende dal repertorio? Oppure vi siete posti il problema, evitando ogni rischio di autoreferenzialità?

GT: La musica, come ogni forma d’arte, non può permettersi di perdere di vista il fatto di essere un’espressione sociale, quindi pubblica. Ogni fenomeno sociale non è – o almeno non dovrebbe essere, perché mi rendo conto che il rischio è sempre dietro l’angolo – un fatto soltanto privato.

AP: Io credo che l’autoreferenzialità sia un problema presente in ogni àmbito sociale e non caratterizzi necessariamente la musica o altre forme d’arte. E credo pure che essa non sia necessariamente fonte di effetti negativi, proprio in ragione della presenza di raggruppamenti sociali diversi che fungono da orizzonte di attesa rispetto alle singole proposte. Vedo invece come un grande problema, proprio di questi tempi, l’esistenza di un’estrema parcellizzazione, sia dal lato della proposta, che dal lato della sua raccolta. È questo che acuisce i rischi di autoreferenzialità, il fatto che sia saltata una rete che prima permetteva ai vari àmbiti di intrecciarsi fra loro. Questo è successo sia per quanto riguarda gli aspetti di interesse delle varie cerchie, sia – e forse soprattutto – per quanto riguarda l’assoluta assenza d’un indice di mobilità trans-generazionale.

GT: È sempre difficile storicizzare il tempo in cui si vive. Si lasciano delle testimonianze, istante per istante, ma è difficile dire cosa resterà quando si andrà a tirare su la rete. Almeno dal punto di vista di noi musicisti, questa è un’operazione che lascia sempre degli spazi di sorpresa. La lettura degli esiti dovrebbe esser propria degli storici o, per fatti minori, dei cronisti. Faccio un esempio: ai tempi di Charles Ives, nessuno avrebbe potuto prevedere la sua importanza nel panorama del Novecento.

Per le vostre esperienze di tipo didattico, pensate che questo problema, con specifico riguardo alla musica, possa avere a che fare con un deficit culturale di base?

AP: Io credo che il problema sia più ampio. L’insegnamento rischia di essere davvero una goccia nel mare.

EDF: La mia esperienza di insegnante di musica nella scuola media conferma quel che dice Alberto: abbiamo a che fare con ragazzi che sono già molto influenzati dalle loro esperienze sociali e familiari. Si può mettere in loro un piccolo seme, cercando di essere di stimolo verso la musica e l’arte ma è difficile incidere in modo decisivo. L’esperienza con i ragazzi è comunque fantastica, un po’ meno se pensiamo all’elefantiasi della burocrazia scolastica.

GT: Dal mio punto di vista, organizzando spesso laboratori entro i conservatori, posso dire che le esperienze riferite da Errico vi si ritrovano amplificate. Gli studenti sono ancor più strutturati e si riesce realmente a incidere sulle formazioni precorse in modo davvero minimo, spesso praticamente ininfluente. Per tornare al discorso fatto prima possiamo dire che troppo spesso i conservatori si rivelano della gabbie prive di chiave. Inoltre l’aspetto della burocrazia è talvolta soffocante: tutto è legato alle graduatorie. Per farti un esempio, fuori da una graduatoria non si potrebbe liberamente chiamare per un’attività didattica un musicista, per quanto fenomenale, come potrebbe essere possibile in altri Paesi e come per esempio si fece con Woody Shaw negli Stati Uniti. Ma forse pensando a certi malvezzi, una mancanza di discrezionalità, nelle nostre strutture, è una specie di clausola di salvaguardia… .

Come è andata con la produzione Clean Feed?

FS: Davvero molto bene! Lavorare con Pedro Costa è stata un’esperienza molto positiva. In effetti Pedro ha agito da vero produttore esecutivo, riservandosi alcune scelte sulla scaletta finale, sia in termini di esclusione di brani che di disposizione degli stessi. Scelte che hanno rivelato un ascolto attento della musica e un occhio per il prodotto e che infatti abbiamo condiviso immediatamente.

GT: Confermo: Pedro si è riservato un ruolo da vero produttore. Debbo dire che, sebbene io non avessi mai pensato a questo come ad un aspetto preminente, forse per una questione di tipo generazionale – aborro un po’ l’idea del cd come «biglietto da visita» e anzi credo che una certa iperproduzione legata al mondo digitale abbia segnato un punto di non ritorno, ovviamente in negativo –, ha saputo scegliere una copertina accattivante, che ha aiutato il disco nella sua riuscita anche in quanto «prodotto». Del resto la qualità di incisione è molto buona, tendente verso un effetto spiccatamente analogico…

FS: In effetti un certo effetto di presenza in gamma bassa, specialmente del contrabbasso, lo abbiamo cercato, ottenendolo, mentre la qualità squisitamente «analogica» è frutto di una casualità, ancora una volta. Dobbiamo certamente ringraziare Lucio Leoni per l’ottimo lavoro svolto, ma il suono è anche frutto di strumentazioni da banco analogico che abbiamo potuto utilizzare solo all’ultimo momento: la loro qualità si è subito rivelata coerente con il contenuto della musica che avevamo registrato.

GT: Confermo che un certo suono è assolutamente cercato e fa parte – diciamo così – di una scelta estetica più funk che jazz.

E cosa potete anticipare del prossimo disco? Ci sarà?

GT: Ci sarà certamente e il repertorio è in larga parte già pronto, diciamo per una buona metà. Ma non c’è fretta.

Sarà mirato verso un repertorio originale? E sarà ancora con Clean Feed?

AP: Forse ci sarà ancora meno materiale originale, però di sicuro avremo realizzato una metabolizzazione ancora maggiore dell’idea di base.

FS: Non sappiamo se sarà ancora per Clean Feed. Certo è che quando sarà pronto verrà naturale proporlo di nuovo a loro, in prima battuta.

Cosa dire infine del gruppo, delle sue dinamiche di interazione e degli equilibri interni?

AP: Il gruppo ha chiaramente una struttura di tipo paritario, non abbiamo un leader riconosciuto. Rispetto alle nostre esperienze precedenti, specie nel perimetro della musica totalmente improvvisata, Roots Magic presenta una rilevante diversità: agisce come se fosse un gruppo rock. Voglio riferirmi al fatto di fare prove costanti, riunirci molto spesso non soltanto per suonare, ma anche per ascoltare materiale e scegliere in modo del tutto collettivo.

GT: Diciamo che c’è ormai un livello molto alto delle competenze, all’interno del gruppo, e questo aiuta molto nella performance e auspichiamo che ci aiuterà anche per il prossimo album. Non ci si dovrebbe mai preoccupare della tecnica come fine a se stessa, ma non c’è dubbio che un alto livello di competenze del singolo musicista renda qualsiasi questione risolvibile in minor tempo. Forse la vera funzione della tecnica, al di là del porsi al servizio dell’espressione – che è un po’ un’ovvietà – è proprio questa.

Sandro Cerini

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Il Grido delle radici

Fabrizio Spera Concerts Reviews

Fabio Ciminiera – Jazz Convention

http://www.jazzconvention.net/index.php?option=com_content&view=article&id=3435%3Aroots-magic–giulianova-il-grido-delle-radici&catid=1%3Aarticoli&Itemid=10

Dalle tradizioni profonde del blues alle esplosioni sonore del free: una rilettura mediata da una gestione ritmica legata agli accenti, nella maggior parte dei casi, e sensibile nel tracciare un binario solido per i solisti. Una rilettura pensata per mettere in luce il significato e l’attualità del blues e per farli incontrare con i ritmi e le suggestioni del Sud del mondo, con i passi di danza dei Caraibi e le reminiscenze africane.
«Per Charley Patton il dilemma presente nel brano, il dilemma tra andare e restare, si traduce in pratica nella scelta di rimanere con i guai già conosciuti oppure andare altrove e incontrare nuovi guai.» Fabrizio Spera presenta così Down The Dirt Road Blues di Charley Patton e mette subito in luce la natura rurale e ancestrale del repertorio scelto. Il viaggio del quartetto prende le mosse dal Delta del Mississippi, dalle profondità più ataviche del linguaggio, dai suoi protagonisti come Blind Willie Johnson o Charley Patton, e ne segue il filo che conduce alle derive libere di John Carter passando per Sun Ra, Julius Hemphill e Henry Threadgill.
La dimensione pianoless mette ancor più in luce le motivazioni del progetto: la fedeltà alle radici del blues e il richiamo alle libertà armoniche del free si combinano in una serie di elementi funzionali al discorso del quartetto. Una musica ruggente e dolorosa e, al tempo stesso, accogliente nella sua capacità di racconto. evocativa di emozioni e stati d’animo. Il quartetto non mette l’accento sulla declinazione più estrema del free e preferisce accompagnare le melodie in modo più leggibile, più vicino al blues se si vuole. Ne viene così fuori una efficace lettura del nome dato alla formazione, il ritmo delle radici si unisce con la dimensione seducente delle melodie del free e con la potenza contenuta nelle composizioni dei suoi alfieri. La dimensione più nervosa viene stemperata dal passo riflessivo del blues. Il senso intimo dei brani e, di conseguenza, dell’intero concerto richiama così in maniera naturale la forza dei testi cantati da Robert Johnson agli incroci delle strade di campagna: i temi affrontati raccontano una dimensione del tutto congenita allo spirito umano, estremamente attuale ancora ai nostri giorni, sia pure con le differenze presenti tra i diseredati di ieri e di oggi. Lo scenario preparato per il concerto dall’Associazione Grido si pone perfettamente in tema con la dimensione di rurale di parte del repertorio: l’aia della Cantina Di Giovanpietro è la platea, la “capanna”, la tipica vigna del territorio abruzzese, offre lo sfondo per il rimorchio che funge da palco per i quattro musicisti.

Jazz im Goethe-Garten, Lisboa 2017

Fabrizio Spera Interviews

JIGG 2017

https://www.goethe.de/ins/pt/pt/kul/sup/jig/20996720.html

 

À conversa com os Roots Magic, um quarteto romano de inspiração americana que apresenta no JiGG 2017 as tradições da Black Music e dos Country Blues

Qual a origem do nome da vossa banda?
Ao pesquisar sobre as tradições da música folk afro-americana, encontrámos um livro intitulado “Hoodoo Herbs and Root Magic”, uma espécie de manual sobre ervas e raízes usadas na tradição mágica no sul dos Estados Unidos. Adaptando um pouco o título, conseguimos assim chegar ao nome da nossa banda e ao título do nosso primeiro álbum. O sul rural dos Estados Unidos está, naturalmente, bastante distante das raízes de quatro italianos, mas como o Evan Parker disse, e muito bem “if you are not from New Orleans or Chicago and you are from north London, your roots are in your record player (Se não és de Nova Orleães ou de Chicago, mas és do norte de Londres – ou, no nosso caso, do sudeste de Roma – as tuas raízes estão no teu gira-discos.) De facto, esta é a música com que crescemos – seja como ouvintes, como músicos ou mesmo como indivíduos.

Onde se conheceram e como se formou a banda?
Somos todos de Roma, um sítio onde a comunidade para este tipo de música é pequena. Depois de uma série de projetos com diferentes combinações, conseguimos, a pouco e pouco, formar o nosso quarteto atual.

Como descreveriam o vosso som?
Incorporamos diferentes aspetos da tradição da Black Music. Por um lado, temos os Country Blues do final dos anos 1920, música que chegava de uma necessidade profunda de expressão e que era originalmente pensada apenas para voz e guitarra. Por outro lado, também temos o lado mais criativo e avançado do jazz, uma forma de música mais “intelectual”, que ainda assim está ancorada nas tradições dos blues.

Quais os artistas que mais vos influenciaram? 
Os nossos interesses e experiências musicais são muito diversos, mas quando falamos sobre os Roots Magic, tendemos a mencionar os autores das músicas que gostamos de misturar e de tocar: Charly Patton, Julius Hemphill, John Carter, Roscoe Mitchell, Sun Ra, Marion Brown…

Como é o vosso processo criativo?
O nosso grupo não surgiu de uma ideia pré-concebida. Na verdade, quando começámos a tocar juntos, costumávamos trabalhar em composições originais com características muito diferentes das que tocamos hoje. De repente, decidimos trabalhar em algo diferente: a primeira peça foi uma composição do Julius Hemphill intitulada The Hard Blues – essa foi a faísca para tudo. Gostámos tanto de tocar esta peça em particular que decidimos continuar a trabalhar nesse sentido.

Qual o momento mais marcante da vossa carreira musical até agora?
Cada concerto – não interessa se perante um grande ou um pequeno público – é uma experiência única. Claro que também algumas boas recordações, como por exemplo o concerto que demos o ano passado na abertura do festival Konfrontationen em Nickelsdorf (Áustria). Este foi, sem dúvida, um ponto alto da nossa carreira até agora.

Em que locais gostam mais de tocar?
Todos os locais onde o espaço, a luz, a acústica e o som ajudem a criar uma boa comunicação com o público.

Têm algum plano para o futuro?
Continuamos a ter uma ótima colaboração com a editora portuguesa que publica os nossos álbuns, a Clean Feed. Em julho, na mesma altura do nosso concerto em Lisboa, iremos também editar o nosso próximo álbum. Este é o nosso próximo passo.

 

Konfrontationen Festival 2016

Fabrizio Spera Concerts Reviews

Andrew Choate – The Fuckle

 
Opening things up on the Jazzgalerie main stage was the Italian quartet Roots Magic. They got things started with a gravelly baritone swagger from De Fabritiis on Charlie Patton’s “Down the Dirt Road Blues” from 1929. I appreciated the combination of the darkness and the celebration, as if the worst experiences can still somehow be commemorated as long as we have other people to share the sentiment with. They also did a version of Julius Hemphill’s “The Hard Blues,” and somehow De Fabritiis’ alto was even more gritty than his baritone: he’s got a growl that could cook a mean steak. This was their first gig playing outside Italy, and they didn’t extend these pieces too much beyond the nut of the original, just lovingly embraced the tunes and put them to bed. But when you choose a set list of tunes by Blind Willie Johnson, Phil Cohran, Olu Dara, John Carter, Pee Wee Russell and Sun Ra, that’s the right strategy. A great choice to open the festival as the breadth of the historical context for a lot of the music that was to come later was acknowledged and rejoiced.

Along Came Jazz 2016

Fabrizio Spera Concerts Reviews

Sandro Cerini – MusicaJazz  
 
Il concerto di più forte impatto, ad onta delle presenza di pubblico meno folta, è parso quello dei Roots Magic, gruppo di chiara vocazione internazionale. Il quartetto romano – autore di una esibizione infuocata – ha rispettato appieno le proprie caratteristiche espressive, confermando la capacità non comune di portare verso il pubblico una musica niente affatto compiaciuta di sé, gravida di umori e foriera d’una capacità comunicativa per più versi esplosiva. L’originale miscela di blues delle origini e di free ribadisce che è nella tensione permanente tra la forma e la sua dissoluzione la ragion d’essere di questa musica.

LIVE DEL MESE – Roots Magic – Il vincolo della forma e la libertà di violarlo

Fabrizio Spera Concerts Reviews

di Sandro Cerini

 Con alle spalle un anno intenso, di esiti artistici assai felici (l’album «Hoodoo Blues & Roots Magic», sulla scia di recensioni tutte molto favorevoli, non soltanto in ambito italiano, si è piazzato nelle prime dieci posizioni del Top Jazz 2015, sia nella categoria «Disco italiano dell’anno», ove è nono, sia in quella «Gruppo italiano dell’anno», ove è settimo) la band romana (Errico De Fabritiis ai sax contralto e baritono, Alberto Popolla al clarinetto e clarinetto basso, Gianfranco Tedeschi al contrabbasso e Fabrizio Spera alla batteria e alle percussioni) si muove alla ricerca d’una meritatissima maggior fama, che permetta di eccedere la di- mensione concertistica meramente territoriale. In questo contesto si inquadra il mini-tour che la vedrà ad aprile visitare Milano (il 6, al 65 Metriquadri), Torino (il 7, al Cafè Des Artes) e Bologna (l’8, al Barazzo). Ma il concerto di Mentana è appartenuto ancora a una misura tutta intra-muros, considerati non soltanto i natali di Gianfranco Tedeschi ma anche il suo forte radicamento personale e culturale rispetto a una realtà locale che seppe esprimere negli anni Settanta una tra le prime – se non la prima – Scuole popolari di musica in Italia, con docenti del calibro di Giovanni Tommaso e Luis Bacalov, tra gli altri. E dunque l’atmosfera era tutta peculiare, di forte partecipazione, sebbene l’evento si indirizzasse a un pubblico di tipo «generalista», ricollegato com’era a festeggiamenti carnevaleschi. Ma il quartetto ha rispettato appieno le proprie caratteristiche espressive, confer- mando la capacità non comune di por- tare verso il pubblico una musica niente affatto compiaciuta di sé, gravida di umo- ri e foriera d’una capacità comunicativa per più versi esplosiva. Dopo un breve riscaldamento iniziale a base di Charley Patton con Down The Dirt Road, è venuto il vero e proprio «manifesto» di The Hard Blues, di Julius Hemphill, che costituisce per il gruppo una sorta di mojo (tanto per stare ai significati traslati dell’hoodoo, che la proposta dei quattro più o meno scherzosamente invoca). Di seguito un dittico dedicato alla morte, iniziato da Oh Death, sempre di Patton, resa in una ver- sione festante, di perfetto stile funerario New Orleans, e completato da una Dark Was The Night (di Blind Willie Johnson) scura e fumosa, indubbiamente uno dei picchi dell’esibizione, almeno sotto il profilo del puro coinvolgimento emotivo. Il pezzo tradizionale Frankie And Albert ha permesso di gestire la transizione verso l’ostentata riverenza espressa dal gruppo rispetto a un altro nume tutelare quale Sun Ra, attraverso una travolgente versione di A Call For All Demons, seguita ancora dall’innodico e coinvolgente cre- scendo di I Can’t Wait Till I Get Home di Olu Dara.

Estremamente significativa la proposta di chiusura ( se si esclude il bis finale di Bermuda Blues) che ha visto la giustapposizione di tradizione (Pee Wee Blues, di Pee Wee Russell) e innovazione (The Sunday Afternoon Jazz And Blues Society, di John Carter) nella storia del clarinetto, in un confronto intelligente e arguto, utilizzato quasi a mo’ di tesi e dissertazione finale, in cui i confini si confondono e gli assunti di partenza non sono poi così scontati, perché in fondo è nella tensione permanente tra la forma e la sua dissoluzione la ragion d’essere di questa musica (e perché, come ha ben osservato Tedeschi, è bello chiudersi nel- la gabbia ideale delle strutture se si pos- siede la chiave per uscirne, perché è vero che «se puoi uscire puoi tornare quando vuoi»). Dunque è questa la sfida per un gruppo che dimostra di avere idee chiare e consapevolezza assoluta delle conse- guenze determinate dalle proprie scelte, procedendo sicuro nell’allargamento del repertorio e nel consolidamento d’una forma espressiva affatto personale, con- fermandosi tra le realtà italiane più inte- ressanti del momento.

MUSICA JAZZ MARZO 2016