http://radiopeng.net/web/index.php/podcast/roots-magic/

A new interview by Sandro Cerini published on the October issue of MusicaJazz.
Il linguaggio universale del Blues all’incrocio con la Creative Music
Ci ritroviamo dopo quattro anni ed è passata molta acqua sotto i ponti. Qual è lo stato dell’arte del gruppo? Nel corso di questi quattro anni, grazie ad un lavoro costante sul repertorio, sentiamo di aver maturato un approccio compositivo più organico, a poco a poco, grazie soprattutto ai concerti abbiamo sviluppato un suono realmente di gruppo e un “insieme” finalmente capace di integrare dinamiche e caratteri individuali. In tutto ciò, quattro anni possono essere niente. Il tempo della ricerca e dell’indagine sono fattori difficili da misurare. Seppur consapevoli di muoverci in una società che richiede continui cambiamenti preferiamo muoverci, secondo una nostra direzionalità. Indaghiamo modelli passati per leggere e interpretare il mondo che ci circonda.
Nella chiusura del precedente album, «Last Kind Words», una versione «quasi dub» di Bermuda Blues, di Henry Threadgill, sembrava preludere a un cambio di prospettiva. Mi sembra invece che le scelte artistiche siano rimaste sostanzialmente immutate. È cosi? È curioso che quel brano possa aver fatto pensare a possibili cambi di rotta. Forse per via degli effetti dub? In realtà si trattava di un brano molto coerente al nostro repertorio, dove il dub non rappresentava altro che una colorazione, un elemento stilistico suggerito dal gusto per certe sonorità di provenienza Giamaicana. Qualcosa che avremmo approfondito volentieri nel nuovo disco. L’album prevedeva infatti una versione, questa volta dichiaratamente dub, di un brano di Lee Perry, poi eliminato per problemi di durata, e ora pubblicato su Bandcamp. Tuttavia, pensiamo che il brano Karen On Monday, a cui è affidata la chiusura del nuovo album, lasci intendere aperture maggiori che non quelle di Bermuda Blues. Il pezzo di John Carter, nella nostra interpretazione «astratta», possiede infatti caratteristiche strutturali effettivamente inesplorate nei precedenti lavori.
In effetti ciò è vero. Che senso dobbiamo attribuire a questa ricerca di astrazione? E invece, l’approccio «giamaicano» di Cloak And Dagger deve intendersi come una via ancora possibile, o un qualcosa di definitivamente rinunciato?
L’approccio improvvisativo, adottato in “Karen on Monday” è parte integrante del nostro background. Tutti noi in periodi diversi abbiamo praticato un tipo di improvvisazione svincolata da idiomi Jazzistici e più protesa all’esplorazione di altri parametri, suono, timbro, spazio, rumore… in definitiva un’ulteriore carta ancora tutta da giocare nell’ambito di Roots Magic. L’inserimento dell’elemento “dub è invece frutto di una nostra passione per quel tipo di musica. Qualcosa che con il dovuto equilibrio e secondo il nostro solito approccio graduale alle cose, potrà ancora trovare spazio nella musica del gruppo.
Sembrerebbe quindi che tra le due anime che animavano il quartetto, quella improvvisativa e quella della forma, la seconda abbia alla fine definitivamente prevalso. Che ne pensate?
Ci sembra che almeno fin qui il rapporto fra composizione e improvvisazione abbia mantenuto un equilibrio più o meno costante. Fin dall’inizio la nostra proposta si è basata essenzialmente su un insieme di brani composti e parti improvvisate, sempre ben ancorate alla forma. Tuttavia, un’analisi più accurata dei tre lavori potrebbe rivelare che l’eventuale spostamento di equilibrio fra queste due componenti andrebbe però a favore dell’improvvisazione. Rispetto agli esordi, le forme dei brani sono ora più dilatate, e le zone aperte al loro interno sono proporzionalmente aumentate fino a culminare nel già citato Karen On Monday, un brano sostanzialmente improvvisato, e come abbiamo appena visto, secondo un approccio diverso.
I crediti di copertina sottolineano che in dei brani sono comprese parti composte da voi. Non è un procedimento del tutto usuale. Potete spiegare ai lettori come ne avete garantito l’integrazione?
Le nostre riletture hanno sempre incorporato elementi originali. L’integrazione di materiali diversi è di fatto un punto nodale del nostro lavoro. Una volta trascritte e arrangiate le parti tematiche, passiamo molto tempo a manipolare i materiali a disposizione. Semplicemente, questa volta, ci è sembrato giusto riconoscere quel lavoro accreditandolo fra le note del disco. Si tratta di una modalità sviluppata all’interno della nostra pratica compositiva e non escludiamo che in futuro si possa estendere in direzione di un repertorio sostanzialmente originale.
Non temete il rischio di una accentuata «repertorizzazione», soprattutto a fronte del continuo affinamento della vostra formula di gruppo e del costante elevamento delle competenze performative?
Non crediamo che l’indagine approfondita di un repertorio, nel nostro caso il Blues delle origini e il Jazz creativo degli anni Sessanta e Settanta, sia un limite. Crediamo invece che sia una grande ricchezza e siamo anche certi che l’affinamento dei modi e l’approfondimento dei materiali non possono che rafforzare la forma e il contenuto del nostro lavoro. Questa è un’esperienza che ci ha fatto crescere in questi anni e probabilmente continuerà a farci crescere in futuro.
Qual è il senso reale di una proposta come la vostra, oggi? In fondo sono sentieri che la «creative music» aveva già in gran parte battuto…
Verrebbe da chiedersi, chi, oggi, può conoscere il senso reale di una proposta. Quello che possiamo dire con franchezza è che i Roots Magic continuano a fare le cose in cui credono. Certamente non siamo i primi a trovare connessioni fra la radice Blues e le forme avanzate del Jazz creativo. Sappiamo di muoverci in un sentiero battuto, eppure sentiamo di aver trovato una nostra voce capace di distinguersi da altre. C’è da dire che il nostro particolare interesse per certe figure «arcaiche» come Charlie Patton o Skip James non ha veri e propri precedenti in ambito jazzistico. Se questi musicisti hanno lentamente acquisito un riconoscimento nel contesto della scena Folk-Blues e in alcuni casi del Rock, sono ancora del tutto ignorati negli ambiti del colto mondo del Jazz. In questi anni abbiamo notato come l’accostamento di certi nomi a quelli del Free Jazz storico provochi spesso degli interessanti cortocircuiti nel pubblico di derivazione Jazzistica.
Siete quindi fortemente convinti che la fusione di forme espressive proprie del blues rurale, trasposte nei nuovi contesti urbani e poi giunta a noi, sia una sorta di formula universale, valida per chiunque voglia proporla (in altre parole, che essa non richieda un radicamento culturale proprio e un vissuto)?
Nel nostro primo disco, al fine di chiarire la nostra posizione, inserimmo una citazione da Evan Parker: «le mie radici sono nel mio giradischi». Ovvero: siamo cresciuti attraverso l’ascolto di questa musica e ne sentiamo forte l’influenza al punto al punto di riconoscerci come culturalmente radicati in quella tradizione. Nel 2018, con nostra grande sorpresa, siamo stati invitati al Juke Joint Festival di Clarksdale in Mississippi, uno dei luoghi chiave nell’evoluzione di questa musica. Per intenderci, il luogo del leggendario incrocio dove Robert Johnson incontrò il diavolo in persona, a un passo dalle piantagioni Dockery dove è cresciuto Charlie Patton. In quei luoghi, a confronto con un pubblico nato in quella cultura, abbiamo potuto verificare l’autenticità della nostra proposta e abbiamo avuto la prova, ce ne fosse bisogno, che il Blues è di fatto un linguaggio universale.
Nel proporre un repertorio siffatto, esiste un aspetto che in qualche modo si possa definire di «committenza»? Per essere più chiari: si guarda a un pubblico?
Nel tempo abbiamo scoperto che la nostra musica è capace di coinvolgere un pubblico ampio e trasversale, e per noi questo è motivo di grande soddisfazione. Regalare emozioni anche a coloro che non sono necessariamente cultori di Blues, né tanto meno di Free Jazz, ci rende orgogliosi. Come ha detto Basilio Sulis, direttore del festival di Sant’Anna Arresi, la nostra proposta sembra avere una funzione propedeutica, avvicina il pubblico, lo rende curioso e di conseguenza apre mondi sconosciuti.
E nei brani in cui vi siete misurati con la necessità di un arricchimento timbrico (cosa già avvenuta in tutti i vostri dischi) in qualche modo vi siete sempre rivolti a compagni di viaggio già familiari. Non c’è l’esigenza di confrontarsi con esperienze del tutto diverse dalle vostre?
Idealmente abbiamo sempre sostenuto che una collaborazione dovrebbe essere motivata da rapporti umani oltre che artistici. Un principio già di per sé selettivo, a cui si aggiungono alcune difficoltà di tipo organizzativo. Data la musica del gruppo, un qualsiasi inserimento, di uno o più elementi esterni, implicherebbe un tempo di prove necessario al riadattamento di temi, arrangiamenti e strutture. Da qui, la necessità di un’organizzazione a supporto dell’operazione. In fondo Roots Magic è una piccola comunità che ha bisogno di lavoro costante e nel tempo, è per questo che generalmente ci rivolgiamo a persone vicine e che sappiamo disponibili. Ovviamente, ciò non esclude la possibilità di un tipo di collaborazione più complessa, a patto che questa venga sposata e supportata dalla struttura di un festival o di una rassegna.
Come avvengono i «recuperi» di ciò che entra nel vostro repertorio? È un fatto di ascolti abituali, che si trasfondono nella vostra esperienza di musicisti, oppure esiste in qualche modo uno spunto per così dire «filologico», che si fa specifica ricerca del particolare?
Generalmente si parte da suggerimenti dei singoli, seguiti poi da ascolti e riflessioni collettive. C’è una grande sintonia nel lavoro di ricerca del materiale, e l’intento filologico è assolutamente secondario. Prima di tutto viene il piacere di suonare e arrangiare alcuni brani e rendere così omaggio a certi autori.
E cosa comprendono i vostri ascolti attuali?
Alberto Popolla: ora sto ascoltando «Three», il nuovo lavoro dei Necks, «The Universe Inside» dei Dream Syndicate e «The Fantastic Mrs. 10» di Tim Berne’s Snakeoil. Gianfranco Tedeschi: sto ascoltando un cofanetto di Sam Jones con gruppi a suo nome e un violista compositore ed improvvisatore del 1600, Captain Tobias Hume. Errico De Fabritiis: i primi tre che mi vengono in mente sono John Coltrane «Concerts In Japan», Betty Davis «They Say I’m Different» e James Brandon Lewis «An Unruly Manifesto». Fabrizio Spera: Ted Curson «Urge», Horace Tapscott «Ancestral Echoes», Irreversible Entanglement «Who Sent You», Kim Suk Chul Ensemble «Shamanistic Ceremonies of the Eastern Seaboard», Hermeto Pascoal «Viajando Com O Som». Prince Far I “Cry Tuff Dub Encounter vol.3
Quali sono i vostri programmi futuri, anche come singoli?
Abbiamo da poco iniziato a lavorare su nuovi materiali in gran parte originali. Ma con un disco appena pubblicato, va da sé che la speranza maggiore sia quella di poter riprendere a suonare dal vivo, l’attività che più di tutte rappresenta la ragion d’essere di questa musica.
Alberto Popolla: appena prima del lockdown avevo messo in piedi un’orchestra di improvvisatori, Anarres Improrkestra, un gruppo che stava lavorando bene ed era pronto per alcuni concerti poi annullati a causa dell’emergenza. E poi c’è il mio progetto in solo, Really The Blues, tra libera improvvisazione e rilettura di classici del Blues e della musica afroamericana in generale.
Gianfranco Tedeschi: i miei programmi sono semplici cercare di vivere bene, continuare a studiare e continuare a fare concerti.
Errico De Fabritiis: vorrei citare Kammermusik, gruppo di improvvisazione con Giancarlo Schiaffini e Luca Tilli, con cui siamo al secondo lavoro per Setola di Maiale. Tengo molto anche al neonato progetto Vite da armadio, in cui oltre a suonare interpreto dei miei testi insieme a Fiora Blasi, attrice, e Giusi Bulotta, contrabbassista.
Fabrizio Spera: Oltra al gruppo Ossatura, a inizio anno ho ripreso a lavorare in trio con Tim Hodgkinson e Gandolfo Pagano. Prosegue poi la collaborazione con Marco Colonna col recentissimo Red Planet insieme a Edoardo Marraffa e Marco Zanotti.
Sandro Cerini
After a good review of our new album, the fine folks at TomaJazz proposed an interview. Here’s the Spanish version https://www.tomajazz.com/web/?p=52324, and here below the Italian version.
La musica dal vivo, compreso il jazz, è una delle vittime della pandemia COVID-19. In che modo vi sta toccando? E al di là della vostra particolare situazione, che impatto ha avuto sulla scena musicale italiana?
Tra Marzo e Maggio 2020, durante la prima e per ora maggiore emergenza ci siamo trovati a dover accettare un lungo periodo di restrizioni. In un clima di distanza fisica e di conseguente overdose informatica, abbiamo continuato a lavorare individualmente, ognuno per se, nel silenzio fino ad allora sconosciuto della propria abitazione e del proprio quartiere. Una condizione nuova nella quale tutti abbiamo percepito un diverso rapporto con lo spazio e il tempo. Nel corso dei nostri incontri settimanali via Zoom abbiamo fatto il possibile per mandare avanti il lavoro curando quelle attività che in genere vengono risucchiate dal ritmo convulso della cosiddetta “normalità”. Abbiamo ascoltato e catalogato vecchie registrazioni, abbiamo montato e pubblicato materiali video, tutto ciò mentre assistevamo all’evolversi di un scenario tutt’altro che rassicurante. Abbiamo visto come l’inaspettata irruzione di un agente sconosciuto, esterno al consueto ordine di idee, può effettivamente mettere in crisi un intero sistema. Abbiamo assistito a come questa irruzione abbia improvvisamente accelerato il processo di maturazione di una serie di criticità sociali pregresse per poi esploderle trasversalmente a tutti i livelli. Insomma, un’esperienza non da poco. In questa condizione ancora tutta in divenire non possiamo fare altro che raccogliere il meglio, trasporlo alle nostre vite e possibilmente applicarlo alla nostra arte.
Con i club chiusi, la distanza di sicurezza, le mascherine… come prevedete il futuro del jazz nei prossimi anni?
Il futuro non è prevedibile, lo dimostra l’avvento di questa pandemia. Il settore della musica già in crisi rischia ora il crollo. La nostra musica si esprime al meglio quando è suonata dal vivo, di fronte a un pubblico che ascolta, e ora con le nuove norme, è naturale che saremo a lungo penalizzati. Difficile dire se quest’esperienza servirà ad una qualche riconsiderazione di quegli schemi, di quelle routine che alla luce di questa crisi appaiono ora come meccanismi insani. Difficile dire se saremo capaci a ridimensionare anche solo minimamente l’estremo dinamismo globale per tornare a porre l’attenzione sulla realtà delle nostre comunità locali. Sul piano istituzionale, ora più che mai c’è bisogno di interventi pubblici che supportino progetti, festival, rassegne, club ecc. Ma sopratutto c’è necessità di salari minimi garantiti per le persone che vivono di sola arte. La civile Europa sarà in grado di rispondere? In tutto ciò va detto che nel corso dell’estate qui in Italia grazie all’audacia di alcuni organizzatori, qualcosa ha ripreso a muoversi e anche noi siamo finalmente riusciti a risuonare più volte dal vivo. Ora la preoccupazione è per la tagione invernale e per l’incognita su come certe attività potranno essere gestite nei luoghi al chiuso.
Roots Magic è un nome davvero interessante. Da dove viene l’ispirazione per il nome del gruppo?
Il nome proviene dalla scoperta sul web di un libro intitolato “Hoodoo Herbs and Root Magic”, una sorta di manuale basato sull’esperienza magico misterica propria della tradizione culturale Afroamericana. Qualcosa di effettivamente lontano dalla nostra realtà ma proprio per questo densa di fascino e in stretta corrispondenza con il mondo espressivo a cui dichiaratamente ci ispiriamo.
Come è nata l’idea di mescolare il deep blues degli anni ’20 e ’30 con il free jazz?
All’origine di questo gruppo non c’è nulla di prestabilito. Tutto si è sviluppato spontaneamente attraverso la semplice messa in campo dei nostri interessi, ricerche e passioni. Abbiamo iniziato suonando musica nostra fino a quando un giorno decidemmo di arrangiare The Hard Blues di Julius Hemphill, un brano e un compositore a cui ci sentiamo particolarmente legati. Il piacere scaturito dal suonare quel pezzo ci ha spinto a proseguire in quella direzione e aprire così un nuovo percorso motivato dalla radice Blues. La connessione fra Blues delle origini e Jazz creativo si è sviluppata naturalmente e non esprime altro che la nostra passione per queste musiche, un qualcosa nato molto prima che ci riunissimo come gruppo.
Come funziona il processo in cui le classiche strutture del Delta blues si trasformano in composizioni più moderne? Come si svolge questo processo creativo?
Il Blues arcaico è un materiale potente e allo stesso tempo molto malleabile. Si presta ad essere modificato, arrangiato e riscritto pur mantenendo intatta la sua incredibile forza comunicativa. Di solito uno di noi si occupa della trascrizione del brano e ne propone un primo possibile arrangiamento che a sua volta diverrà oggetto di discussione e rielaborazione collettiva.
Nel vostro ultimo album, “Take Root Among the Stars”, lavorate con brani di Charley Patton, Phil Cohran, Skip James… Quali altri nomi vi ispirano per il futuro
Molto presto inizieremo a lavorare su materiali originali. Dopo tre album sentiamo l’esigenza di ristabilire le proporzioni tra l’attività di arrangiamento di pezzi altrui e il lavoro compositivo su materiali originali, senza però interferire con l’ispirazione e il riferimento alla matrice Afroamericana che ci ha caratterizzato fin qui. In generale non ci dispiacerebbe metter mano alla musica di alcune donne della prima ora come Ma Rainey e Bessie Smith e per quel che riguarda il repertorio più contemporaneo, l’attenzione potrebbe dirigersi su figure come Horace Tapscott e Wadada Leo Smith.
Quello che mi colpisce di questo album è come sia in grado di connettersi con il pubblico, senza dover necessariamente sapere nulla di blues o di jazz. Questo è qualcosa che si raggiunge anche nei vostri altri album: pensate che a volte il jazz pecchi il contrario? Che richieda un esercizio di “intellettualità”?
Una delle qualità di questo gruppo è effettivamente quella di riuscire a coinvolgere un pubblico ampio, trasversale e non necessariamente esperto. E’ la presenza del Blues e della sua vitalità che aiutano a superare le difficoltà di fruizione legate ad un linguaggio più complesso ed elaborato come il jazz. Va però detto che troppo spesso l’ascoltatore rischia di essere vittima del proprio pregiudizio. Spesso tende a porre una sorta di barriera difensiva rinunciando troppo facilmente sia al semplice piacere dell’ascolto, sia alla facoltà di elaborazione critica. Insomma crediamo che su questo punto, al confine fra queste due tendenze, musicisti e pubblico, nessuno escluso, dovrebbero trovare un loro equilibrio e un loro punto d’incontro.
Considerate la possibilità di un futuro album in cui partiate da composizioni moderne e che passino attraverso il filtro free che vi caratterizza?
Come già detto, in futuro inizieremo a lavorare su materiali di nostra composizione, tuttavia non è escluso l’inserimento in repertorio di autori e brani più vicini a noi. Tendiamo per nostra natura ad un approccio inclusivo, crediamo nella fluidità fra radici e futuro. Questa è da sempre una grande caratteristica di tutta la musica Afroamericana. Una qualità che spesso si contrappone con la tendenza Europea alla separazione non sempre motivata in categorie di genere, stile, tempo.
Quali sono i gruppi del panorama musicale italiano ed europeo che vi ispirano di più? Qualche gruppo o artista spagnolo che ha attirato la vostra attenzione?
In questi anni, la scena Italiana è molto cresciuta. Il numero di giovani e bravi musicisti apparsi sulla scena è impressionante. Ciclicamente in Europa assistiamo all’esplosione di alcuni fenomeni come l’attuale rivelazione soprattutto mediatica di una nuova generazione di jazzisti Britannici o il rinnovato fiorire della scena Scandinava. Senza fare nomi e classifiche possiamo certamente dire che la comunità è in netta espansione e che Roots Mgic è in buona compagnia.
Quali sono i vostri obiettivi per i prossimi anni?
Suonare il più possibile da vivo, elaborare un nuovo repertorio per un quarto album, allacciare nuove collaborazioni, ma per tutto questo c’è tempo, per ora ci godiamo Take Root Among the Stars!
Rudy de Juana, 2020
Intervista ai Roots Magic, freschi del secondo disco (Last Kind Words) per Clean Feed
Enrico Bettinello
http://www.giornaledellamusica.it/articoli/le-radici-e-la-storia-roots-magic
Giunti al secondo disco per la portoghese Clean Feed, i Roots Magic confermano di essere uno dei gruppi più intensi della nostra scena jazz. Il clarinettista Alberto Popolla, insieme al sassofonista Errico DeFabritiis, al contrabbasso di Gianfranco Tedeschi e alla batteria di Fabrizio Spera costituiscono infatti un formidabile combo che si muove nel solco della più rovente tradizione creativa nera.
Non a caso anche in Last Kind Words – questo il titolo del nuovo disco – i quattro (con ospiti come Luca Venitucci o Luca Tilli) rileggono con grande freschezza temi di Charley Patton, di Julius Hemphill, di Roscoe Mitchell, ma anche di Henry Threadgill. Musica dalle sane radici blues, che nasce dall’urlo, dall’anima, musica che in parte ha trovato una sua storicizzazione, ma che con i Roots Magic dimostra di essere sempre portatrice di una sana energia emotiva.
Per raccontarci la loro musica abbiamo incontrato i Roots Magic.
Come nasce il gruppo?
ALBERTO POPOLLA: «Il gruppo è nato circa quattro anni fa, ma la nostra amicizia e frequentazione musicale risale a molto tempo prima. All’inizio il repertorio era molto diverso, lavoravamo principalmente su composizioni originali e avevamo anche un pianista. Rimasti presto in quattro, e con un nuovo suono tutto da sperimentare, un giorno Fabrizio propose di lavorare su “The Hard Blues” di Julius Hemphill, ed è lì che è nata l’idea alla base del nostro repertorio attuale, dal grande piacere che provammo nel riarrangiare e suonare questo bellissimo brano».
Tra le cose che avete ripescato, c’è il Marion Brown di November Cotton Flower, un disco tutto sommato non conosciutissimo.
FABRIZIO SPERA: «Effettivamente “November Cotton Flower” proviene da uno dei suoi album meno noti e forse complessivamente più deboli. Eppure il fascino di quel tema di sole quattro note, unito all’ispirazione poetica proveniente dall’omonimo testo di Jean Toomer, ne fanno un brano, per noi, particolarmente significativo. Marion Brown è stato tra i primissimi musicisti di jazz che ebbi la fortuna di vedere dal vivo tra il 1979 e l’80. Ricordo che come quindicenne più avvezzo alla presenza scenica dei gruppi rock, rimasi particolarmente colpito dalla grande quiete e dall’estrema familiarità dell’uomo, e del suo stare in scena. Da lì in poi, la fascinazione per la sua musica non mi ha mai abbandonato».
Come nascono queste vostre scelte?
FABRIZIO SPERA: «La scelta di brani di Hemphill, Mitchell, Olu Dara e altri proviene essenzialmente dalla passione maturata negli anni per queste persone, per la loro storia e la loro musica. A volte l”ispirazione è rafforzata dall’esperienza diretta, come nel caso del pezzo di Hamiet Bluiett, la cui scelta ha a che fare con il ricordo di un concerto del World Saxophone Quartet (Hemphill, Lake, Murray, Bluiett) insieme a Max Roach, al teatro dell’Opera di Roma nell’82. Vi lascio immaginare l’effetto propulsivo di quell’unisono di quattro sassofoni e batteria».
Anagraficamente avete avuto modo di ascoltare spesso dal vivo i vari Hemphill, Carter, Bluiett, Mitchell, negli anni Ottanta, quando spesso erano in Italia?
FABRIZIO SPERA: «In Italia, tra gli anni Settanta e i primi Ottanta, molti di questi musicisti erano praticamente di casa. Li si poteva vedere frequentemente dal vivo, sia in situazione di piccoli club, che di grandi festival. La cosa interessante è che anche se d’avanguardia, raramente questi nomi venivano ghettizzati in programmi o contesti ad hoc. Molto spesso negli stessi cartelloni, figuravano sia i grandi del mainstream come Johnny Griffin, Phil Woods, Art Pepper, che i già maturi Sam Rivers, Don Cherry e Sun Ra, senza escludere i giovani leoni dell’avanguardia di allora, soprattutto quella proveniente da Chicago, St.Louis e New York. Club e teatri erano sempre molto affollati, la partecipazione del pubblico era, almeno apparentemente, attiva e rumorosa. Ricordo qualcuno che durante un’articolata presentazione di Joseph Jarman, dal palco di un teatro, si alzò chiedendo perentoriamente che l’organizzazione traducesse le parole di Jarman sul significato di Great Black Music. Oppure un gruppo di persone che immediatamente dopo un concerto di Braxton andò da lui chiedendo di descrivergli i suoi pensieri e le sue emozioni durante la performance».
Sia nel precedente lavoro che nel nuovo Last Kind Words, mi sembra infatti evidente che l’universo di riferimento sia quello nero, sia del blues che della linea di discendenza avanguardistica che passa per Chicago e Saint Louis. Come lavorate su questi materiali?
ALBERTO POPOLLA: «Il nostro lavoro è essenzialmente collettivo. Ascoltiamo insieme il materiale originale e scegliamo quello che ci convince di più. Poi uno di noi si incarica di trascrivere il brano e di formulare un primo arrangiamento, che poi, durante le prove, verrà modificato e spesso stravolto. Da questo punto di vista, il nostro, è un procedimento molto vicino a quello di un gruppo rock, per quantità e regolarità di prove e per l’elaborazione fortemente collettiva del materiale».
Qualche parola sul ruolo dei clarinetti in questa evoluzione del linguaggio nero…
ALBERTO POPOLLA: «Il clarinetto nel jazz risente ancora troppo della forte impronta lasciata dai grandi band leader del periodo swing, Goodman, Shaw, Herman. Le sonorità e l’estetica del clarinetto nel jazz sono spesso associati allo swing, al virtuosismo, al suono levigato e gentile. Tutto questo mette assolutamente in ombra il ruolo fondamentale avuto all’inizio della storia del jazz e del blues. Il clarinetto può anche avere un suono scuro, rabbioso, graffiante. Non a caso noi abbiamo recuperato il bellissimo The Sunday Afternoon Jazz and Blues Society di John Carter, uno dei pochi a suonare il clarinetto in un modo decisamente diverso dal modello classico. Nel nostro nuovo cd c’è “Pee Wee Blues” di Pee Wee Russell, un altro clarinettista che, seppur associato al jazz tradizionale, aveva un modo di suonare così particolare da essere lontano anni luce dal linguaggio dei clarinettisti swing. Questo discorso vale ovviamente per il clarinetto, ma non per il clarinetto basso che, curiosamente, ha avuto una storia radicalmente opposta al suo parente più famoso. Qui fu Dolphy a dare allo strumento la dignità di protagonista e non solo di comprimario. Ovvio che questo ha comportato poi un’evoluzione musicale differente per il clarinetto basso, strumento da sempre associato al jazz d’avanguardia».
Come è accaduta la collaborazione con la Clean Feed, per la quale siete uno dei pochissimi gruppi italiani a incidere?
ALBERTO POPOLLA: «La Clean Feed è stata la nostra prima scelta al momento di cercare una produzione possibilmente coerente al nostro progetto. Abbiamo spedito il materiale del nostro primo disco a Pedro Costa e lui ne è rimasto subito entusiasta, intervenendo attivamente anche nella scelta dei brani e alla composizione della scaletta finale. Visto il successo del primo disco, è stato naturale proseguire la collaborazione anche per Last Kind Words».
Nonostante l’ottima accoglienza del precedente disco, non vi vedo molto spesso nei cartelloni di festival e rassegne fuori Roma, come mai?
GIANFRANCO TEDESCHI: «Una delle funzioni primarie, dal mio punto di vista, dovrebbe essere la valorizzazione di nuove proposte musicali e la capacità di scovare nuovi talenti. Questo implica una competenza e una conoscenza del panorama musicale da parte del direttore artistico che si ottiene solo attraverso l’ascolto di materiale, la lettura di recensioni critiche, ma soprattutto la partecipazione ai concerti dal vivo. Questo accade in Italia? Molti direttori di festival, il più delle volte, sono interessati a far funzionare la singola edizione, diventano quindi un filtro tra le pressioni economiche e le preferenze spesso modaiole del pubblico. Quindi ci si rivolge spesso ad agenzie che vendono pacchetti di artisti affermati con un risparmio da un punto di vista organizzativo. Per questo si vedono gli stessi nomi in diversi festival.
Un altro ruolo sociale importante riguarda il pubblico. Un bel festival è quello che stimola, incuriosisce, provoca e stupisce con scelte nette e coraggiose. Quello che vedo spesso invece è cercare di arrivare alla fine del programma con un mix che accontenta il più possibile tutti. Quindi riguardo ai Roots Magic, oltre alla risposta iniziale, penso che gli organizzatori di festival (tranne rari casi) non sanno chi siano e non li abbiano mai sentiti né su disco né dal vivo. Forse non è un caso che, almeno per adesso, gli inviti sono giunti principalmente da festival all’estero».
Alberto, Errico e Gianfranco suonano anche nei Freexielanders, insieme a due musicisti “storici” della nostra musica di ricerca come Schiaffini e Colombo. Cosa vi lega, se qualcosa vi lega, a quella scena italiana più sperimentale?
ERRICO DE FABRITIIS: «A Roma, per chi come noi si interessa agli aspetti meno convenzionali del jazz, il rapporto con la storia è rappresentato da musicisti come Schiaffini, Colombo, e finché ha vissuto, dall’insostituibile Mario Schiano. Mi sono trasferito nella capitale a metà anni Ottanta e le prime esperienze e collaborazioni hanno avuto luogo con musicisti che orbitavano nell’ambito di Schiano. In questo percorso, inevitabilmente, fra le figure di riferimento c’erano Schiaffini e Colombo. Far parte dei Freexielanders è una naturale conseguenza del mio percorso musicale e umano».
Quali sono le esperienza musicali contemporanee che ti interessano di più, i colleghi – anche non italiani – con cui ti piacerebbe collaborare?
ALBERTO POPOLLA: «Un musicista con il quale ci piacerebbe collaborare è Marc Ribot, sia ovviamente per il suo valore specifico, che per il desiderio e la curiosità di integrare il suono di una chitarra elettrica nella tessitura essenzialmente acustica del gruppo. Un’ esperienza musicale di notevole interesse in questi ultimi anni mi sembra sia Snakeoil di Tim Berne. Oscar Noriega è un clarinettista che mi piace molto».
Cosa ascoltano i Roots Magic in queste settimane?
ALBERTO POPOLLA: «The Necks, Drive By e Eric Schaefer, Kyoto mon Amour».
ERRICO DE FABRITIIS: «, Paul Motian, Monk in Motian, e Julius Hemphill, Blue Boye».
GIANFRANCO TEDESCHI: « Bela Bartók, String Quartets, e l’Hampton Hawes Trio».
FABRIZIO SPERA: «Shabazz Palaces e Olu Dara & Phillip Wilson, Esoteric».
Quali i prossimi progetti dei Roots Magic?
ALBERTO POPOLLA: «Qualche mese fa abbiamo fatto un bellissimo lavoro in collaborazione con Ab Bears e Ig Henneman, e sicuramente ci piacerebbe continuare a mettere alla prova il nostro repertorio anche con altri musicisti. In ogni caso al momento siamo impegnati nella promozione di Last Kind Words e allo stesso tempo nell’elaborazione di nuovo materiale per un prossimo nuovo repertorio».
foto Eleonora Cerri Pecorella
https://www.musicajazz.it/the-roots-magic-show/
Qual è l’origine del nome del quartetto?
Fabrizio Spera: A dirla tutta, c’è una certa dose di casualità. In una fase molto embrionale della vita del gruppo mi sono imbattuto sul web in uno strano libro intitolato Hoodoo Herb And Root Magic, una sorta di ricettario, o meglio un manuale pratico basato sull’esperienza magico-misterica propria della tradizione culturale africana-americana che va sotto il nome di hoodoo. Vi si trovano informazioni botaniche su erbe, radici e indicazioni vere e proprie su come preparare pozioni e creare talismani personalizzati (le tipiche mojo bags), per arrivare a filtri magici e cose del genere. Questa strana suggestione, che ovviamente corrispondeva già a dei nostri interessi relativi al folklore magico del Sud rurale e alla sua riscoperta in chiave «urbana» – argomenti che hanno già fatto parte della ricerca e del mondo espressivo di musicisti che ci sono cari, come, giusto per fare un nome, Julius Hemphill – spiega sia il nome del gruppo che quello del disco, «Hoodoo Blues And Roots Magic».
E in pratica il gruppo com’è nato?
Errico De Fabritiis: Anche in questo c’è stata una certa componente casuale. Esisteva un gruppo diverso, un quartetto che comprendeva Alberto, Gianfranco, Fabrizio e il pianista Alberto Fiori; suonavano un repertorio originale, con dei brani composti da Gianfranco, di impianto decisamente cameristico… Si era verso la fine del 2011. A me era capitato diverse volte di suonare in duo con Fabrizio e poi in duo con Alberto: questo duo di fiati, che è nato altrettanto per caso, improvvisando all’interno del negozio di dischi romano Blutopia, poi si è stabilizzato come Improgressive. Fu sulla base di questi rapporti che avvenne il mio inserimento. Quando poi, di lì a poco, il pianista lasciò il quartetto, il suono del gruppo subì la giusta trasformazione per l’imminente cambio di rotta. La svolta nella vita del gruppo, che poi lo ha portato verso quello che adesso siamo, è venuta comunque in maniera abbastanza fortuita. Un giorno Fabrizio ha proposto di suonare The Hard Blues, di Hemphill e la cosa ha subito colpito tutti, perché andava, aveva il giusto spirito e un groove finalmente coinvolgente.
Alberto Popolla: Tuttavia per un certo periodo di tempo siamo andati avanti con un doppio repertorio, proprio perché all’inizio non c’era stata una programmazione definita verso questa direzione artistica. Tutto questo è durato almeno sino a tutto il 2013. Anche se debbo dire che la confluenza tra il blues e un mondo espressivo più legato alla musica improvvisata è venuta naturale.
FS: In particolare abbiamo sentito subito il bisogno di stabilire una relazione tra le forme più arcaiche e profonde del blues e quelle più aperte e creative del free jazz e senza tralasciare lo spirito solo apparentemente più «leggero» del funk e del rhythm and blues.
Il fatto di proporre in larga parte dei brani altrui non vi pesa? Seppur scherzosamente, qualcuno vi ha definito come una cover band…
Gianfranco Tedeschi: In questo senso il disco potrebbe sembrare un passo indietro. Si pensa sempre che vi sia uno sviluppo di tipo lineare e progressivo, mentre nei fatti il sistema è circolare, spiraliforme. In realtà noi abbiamo visto il ritorno a forme chiuse come un passo in avanti. Non vorrei buttarmi in dei paragoni insostenibili, ma qualcosa di analogo è avvenuto in settori artistici diversi. Ad esempio nella arti figurative, con il cosiddetto «ritorno ad un altro ordine»; basti pensare all’ultimo Picasso, che per far sorgere figure di altri tempi si riappropria di un sistema di segni che sintetizzano tutti i suoi precedenti stili. Dopo questa esperienza per me è difficile tornare a forme improvvisate totali, perché in una certa misura non mi convincono più.
FS: Su questo punto, ci sono visioni diverse. Personalmente tendo a non fare distinzione tra musica composta e improvvisata: ognuna di queste pratiche, incluse quelle che tendono alla loro integrazione, pongono problematiche diverse ma altrettanto stimolanti e percorribili con lo stesso spirito e determinazione.
EDF: L’esistenza d’una struttura produce sempre degli effetti tranquillizzanti, ma ciò non significa che semplifichi le cose. Per me, ad esempio, il lavoro su questo repertorio ha significato il confronto con la forma del blues non soltanto come questione stilistica ma soprattutto in relazione al contenuto. Il confronto e lo scambio con gli altri, e con Fabrizio in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale, ed è così che è nato il mio pezzo Blues For Amiri B.
FS: Per quanto mi riguarda, se volessi riconoscere un tramite che mi ha ricondotto verso la «questione» del blues, dovrei necessariamente indicare la mia esperienza con Mike Cooper nel progetto Truth In The Abstract Blues. Sebbene il suo approccio alla materia presenti delle caratteristiche fortemente personali, sostanzialmente diverse da quello di Roots Magic, non posso negare di esserne stato influenzato.
AP: La sfida è quella di usare quei materiali provenienti dal repertorio del country blues – che indubbiamente costituiscono una vera e propria miniera d’oro – e rimodellarli secondo l’esperienza accumulata attraverso la pratica del jazz e dell’improvvisazione.
FS: Non dimentichiamo che si sta parlando di musica pensata in origine per voce e chitarra, e va da sé che una rielaborazione per quartetto implichi necessariamente un tipo di azione radicale in termini di scrittura e arrangiamento.
GT: Le strutture della prima fase del blues, quella più arcaica, sono di fatto modali. Ci sono delle caratteristiche salienti in quelle forme con le quali è necessario fare i conti, ad esempio il fatto che le parole fossero più importanti della musica e che essa in ampia misura risulti servente a una funzione di narrazione orale. Questo determina delle ovvie restrizioni per chi si ritrova a suonare quel repertorio, tentando di attualizzarlo. Posso dire che è bello stare in una gabbia, ma è importante avere la chiave per uscirne: se puoi uscirne puoi anche tornarvi quando vuoi.
Quello che immediatamente colpisce nella musica di Roots Magic è la forza comunicativa, il fatto che essa vada naturalmente verso il pubblico. Dipende dal repertorio? Oppure vi siete posti il problema, evitando ogni rischio di autoreferenzialità?
GT: La musica, come ogni forma d’arte, non può permettersi di perdere di vista il fatto di essere un’espressione sociale, quindi pubblica. Ogni fenomeno sociale non è – o almeno non dovrebbe essere, perché mi rendo conto che il rischio è sempre dietro l’angolo – un fatto soltanto privato.
AP: Io credo che l’autoreferenzialità sia un problema presente in ogni àmbito sociale e non caratterizzi necessariamente la musica o altre forme d’arte. E credo pure che essa non sia necessariamente fonte di effetti negativi, proprio in ragione della presenza di raggruppamenti sociali diversi che fungono da orizzonte di attesa rispetto alle singole proposte. Vedo invece come un grande problema, proprio di questi tempi, l’esistenza di un’estrema parcellizzazione, sia dal lato della proposta, che dal lato della sua raccolta. È questo che acuisce i rischi di autoreferenzialità, il fatto che sia saltata una rete che prima permetteva ai vari àmbiti di intrecciarsi fra loro. Questo è successo sia per quanto riguarda gli aspetti di interesse delle varie cerchie, sia – e forse soprattutto – per quanto riguarda l’assoluta assenza d’un indice di mobilità trans-generazionale.
GT: È sempre difficile storicizzare il tempo in cui si vive. Si lasciano delle testimonianze, istante per istante, ma è difficile dire cosa resterà quando si andrà a tirare su la rete. Almeno dal punto di vista di noi musicisti, questa è un’operazione che lascia sempre degli spazi di sorpresa. La lettura degli esiti dovrebbe esser propria degli storici o, per fatti minori, dei cronisti. Faccio un esempio: ai tempi di Charles Ives, nessuno avrebbe potuto prevedere la sua importanza nel panorama del Novecento.
Per le vostre esperienze di tipo didattico, pensate che questo problema, con specifico riguardo alla musica, possa avere a che fare con un deficit culturale di base?
AP: Io credo che il problema sia più ampio. L’insegnamento rischia di essere davvero una goccia nel mare.
EDF: La mia esperienza di insegnante di musica nella scuola media conferma quel che dice Alberto: abbiamo a che fare con ragazzi che sono già molto influenzati dalle loro esperienze sociali e familiari. Si può mettere in loro un piccolo seme, cercando di essere di stimolo verso la musica e l’arte ma è difficile incidere in modo decisivo. L’esperienza con i ragazzi è comunque fantastica, un po’ meno se pensiamo all’elefantiasi della burocrazia scolastica.
GT: Dal mio punto di vista, organizzando spesso laboratori entro i conservatori, posso dire che le esperienze riferite da Errico vi si ritrovano amplificate. Gli studenti sono ancor più strutturati e si riesce realmente a incidere sulle formazioni precorse in modo davvero minimo, spesso praticamente ininfluente. Per tornare al discorso fatto prima possiamo dire che troppo spesso i conservatori si rivelano della gabbie prive di chiave. Inoltre l’aspetto della burocrazia è talvolta soffocante: tutto è legato alle graduatorie. Per farti un esempio, fuori da una graduatoria non si potrebbe liberamente chiamare per un’attività didattica un musicista, per quanto fenomenale, come potrebbe essere possibile in altri Paesi e come per esempio si fece con Woody Shaw negli Stati Uniti. Ma forse pensando a certi malvezzi, una mancanza di discrezionalità, nelle nostre strutture, è una specie di clausola di salvaguardia… .
Come è andata con la produzione Clean Feed?
FS: Davvero molto bene! Lavorare con Pedro Costa è stata un’esperienza molto positiva. In effetti Pedro ha agito da vero produttore esecutivo, riservandosi alcune scelte sulla scaletta finale, sia in termini di esclusione di brani che di disposizione degli stessi. Scelte che hanno rivelato un ascolto attento della musica e un occhio per il prodotto e che infatti abbiamo condiviso immediatamente.
GT: Confermo: Pedro si è riservato un ruolo da vero produttore. Debbo dire che, sebbene io non avessi mai pensato a questo come ad un aspetto preminente, forse per una questione di tipo generazionale – aborro un po’ l’idea del cd come «biglietto da visita» e anzi credo che una certa iperproduzione legata al mondo digitale abbia segnato un punto di non ritorno, ovviamente in negativo –, ha saputo scegliere una copertina accattivante, che ha aiutato il disco nella sua riuscita anche in quanto «prodotto». Del resto la qualità di incisione è molto buona, tendente verso un effetto spiccatamente analogico…
FS: In effetti un certo effetto di presenza in gamma bassa, specialmente del contrabbasso, lo abbiamo cercato, ottenendolo, mentre la qualità squisitamente «analogica» è frutto di una casualità, ancora una volta. Dobbiamo certamente ringraziare Lucio Leoni per l’ottimo lavoro svolto, ma il suono è anche frutto di strumentazioni da banco analogico che abbiamo potuto utilizzare solo all’ultimo momento: la loro qualità si è subito rivelata coerente con il contenuto della musica che avevamo registrato.
GT: Confermo che un certo suono è assolutamente cercato e fa parte – diciamo così – di una scelta estetica più funk che jazz.
E cosa potete anticipare del prossimo disco? Ci sarà?
GT: Ci sarà certamente e il repertorio è in larga parte già pronto, diciamo per una buona metà. Ma non c’è fretta.
Sarà mirato verso un repertorio originale? E sarà ancora con Clean Feed?
AP: Forse ci sarà ancora meno materiale originale, però di sicuro avremo realizzato una metabolizzazione ancora maggiore dell’idea di base.
FS: Non sappiamo se sarà ancora per Clean Feed. Certo è che quando sarà pronto verrà naturale proporlo di nuovo a loro, in prima battuta.
Cosa dire infine del gruppo, delle sue dinamiche di interazione e degli equilibri interni?
AP: Il gruppo ha chiaramente una struttura di tipo paritario, non abbiamo un leader riconosciuto. Rispetto alle nostre esperienze precedenti, specie nel perimetro della musica totalmente improvvisata, Roots Magic presenta una rilevante diversità: agisce come se fosse un gruppo rock. Voglio riferirmi al fatto di fare prove costanti, riunirci molto spesso non soltanto per suonare, ma anche per ascoltare materiale e scegliere in modo del tutto collettivo.
GT: Diciamo che c’è ormai un livello molto alto delle competenze, all’interno del gruppo, e questo aiuta molto nella performance e auspichiamo che ci aiuterà anche per il prossimo album. Non ci si dovrebbe mai preoccupare della tecnica come fine a se stessa, ma non c’è dubbio che un alto livello di competenze del singolo musicista renda qualsiasi questione risolvibile in minor tempo. Forse la vera funzione della tecnica, al di là del porsi al servizio dell’espressione – che è un po’ un’ovvietà – è proprio questa.
Sandro Cerini
https://www.goethe.de/ins/pt/pt/kul/sup/jig/20996720.html
À conversa com os Roots Magic, um quarteto romano de inspiração americana que apresenta no JiGG 2017 as tradições da Black Music e dos Country Blues.
Qual a origem do nome da vossa banda?
Ao pesquisar sobre as tradições da música folk afro-americana, encontrámos um livro intitulado “Hoodoo Herbs and Root Magic”, uma espécie de manual sobre ervas e raízes usadas na tradição mágica no sul dos Estados Unidos. Adaptando um pouco o título, conseguimos assim chegar ao nome da nossa banda e ao título do nosso primeiro álbum. O sul rural dos Estados Unidos está, naturalmente, bastante distante das raízes de quatro italianos, mas como o Evan Parker disse, e muito bem “if you are not from New Orleans or Chicago and you are from north London, your roots are in your record player (Se não és de Nova Orleães ou de Chicago, mas és do norte de Londres – ou, no nosso caso, do sudeste de Roma – as tuas raízes estão no teu gira-discos.) De facto, esta é a música com que crescemos – seja como ouvintes, como músicos ou mesmo como indivíduos.
Onde se conheceram e como se formou a banda?
Somos todos de Roma, um sítio onde a comunidade para este tipo de música é pequena. Depois de uma série de projetos com diferentes combinações, conseguimos, a pouco e pouco, formar o nosso quarteto atual.
Como descreveriam o vosso som?
Incorporamos diferentes aspetos da tradição da Black Music. Por um lado, temos os Country Blues do final dos anos 1920, música que chegava de uma necessidade profunda de expressão e que era originalmente pensada apenas para voz e guitarra. Por outro lado, também temos o lado mais criativo e avançado do jazz, uma forma de música mais “intelectual”, que ainda assim está ancorada nas tradições dos blues.
Quais os artistas que mais vos influenciaram?
Os nossos interesses e experiências musicais são muito diversos, mas quando falamos sobre os Roots Magic, tendemos a mencionar os autores das músicas que gostamos de misturar e de tocar: Charly Patton, Julius Hemphill, John Carter, Roscoe Mitchell, Sun Ra, Marion Brown…
Como é o vosso processo criativo?
O nosso grupo não surgiu de uma ideia pré-concebida. Na verdade, quando começámos a tocar juntos, costumávamos trabalhar em composições originais com características muito diferentes das que tocamos hoje. De repente, decidimos trabalhar em algo diferente: a primeira peça foi uma composição do Julius Hemphill intitulada The Hard Blues – essa foi a faísca para tudo. Gostámos tanto de tocar esta peça em particular que decidimos continuar a trabalhar nesse sentido.
Qual o momento mais marcante da vossa carreira musical até agora?
Cada concerto – não interessa se perante um grande ou um pequeno público – é uma experiência única. Claro que também algumas boas recordações, como por exemplo o concerto que demos o ano passado na abertura do festival Konfrontationen em Nickelsdorf (Áustria). Este foi, sem dúvida, um ponto alto da nossa carreira até agora.
Em que locais gostam mais de tocar?
Todos os locais onde o espaço, a luz, a acústica e o som ajudem a criar uma boa comunicação com o público.
Têm algum plano para o futuro?
Continuamos a ter uma ótima colaboração com a editora portuguesa que publica os nossos álbuns, a Clean Feed. Em julho, na mesma altura do nosso concerto em Lisboa, iremos também editar o nosso próximo álbum. Este é o nosso próximo passo.